La corrispondenza per prigionieri e militari WWII - Introduzione storica
Durante il secondo conflitto mondiale, il nostro paese ha avviato campagne di guerra su diversi fronti, con gli esiti negativi che tutti conosciamo. Ciò nonostante, in occasione delle poche vittorie conseguite sul campo, sono stati catturati dagli Italiani un numero di prigionieri, stimato da diversi autori ed in base alle fonti d’archivio disponibili, dai 140.000 circa del luglio 1942 agli 85.000 circa del settembre 1943. L’elevato numero di prigionieri ha comportato la necessità di allestire, in tempi anche ristretti, numerosi campi di detenzione su tutto il territorio metropolitano, con un notevole impatto in termini organizzativi e logistici. Da non trascurare che gli sviluppi del conflitto in Italia ebbero quale logica conseguenza la necessità di aprire nuovi campi di prigionia e/o di spostare quelli esistenti sulla direttrice sud-nord. Il numero dei campi per prigionieri di guerra in Italia, secondo le notizie raccolte in “www.campifascisti.it” è stimato in 85 e comprende campi di prigionia veri e propri (come il campo di Altamura – Gravina in Puglia P.G. 65), ospedali per prigionieri di guerra (come l’Ospedale di Altamura P.G. 204) e campi di transito (come il campo di Altamura Villa Serena P.G. 51). Questi ultimi erano destinati a raccogliere provvisoriamente, in località lontane dalla prima linea, i soldati fatti prigionieri, in attesa della destinazione definitiva. I campi di transito italiani più numerosi, destinati ai soldati alleati fatti prigionieri in nord Africa, erano in Libia. Da qui, dopo qualche mese, venivano trasferiti in Italia e, dopo lo sbarco nei principali porti quali Brindisi, Taranto o Napoli, avviati in ulteriori campi di transito (citiamo P.G. 66 Capua, P.G. 75 Bari Torre Tresca e P.G. 85 Tuturano). Non si hanno notizie certe di quanti e quando furono i primi soldati nemici catturati, ma è ragionevole presumere che i primi internati furono di nazionalità francese, catturati durante i brevi scontri avvenuti sul fronte alpino occidentale, agli inizi della guerra. Si hanno notizie della presenza di circa 150 Francesi a Fonte d’Amore/Sulmona e di un’aliquota degli stessi presso il Campo P.G. 66 di Capua. Con il proseguire della guerra e l’allargamento dei fronti, numerose altre nazionalità si aggiunsero (Serbi, Croati, Inglesi, Sudafricani, Neozelandesi, Australiani, Indiani, Canadesi, Greci, etc.). Il numero di presenze delle diverse nazionalità tra i prigionieri dipendeva da diversi fattori: la durata della campagna, la regionalizzazione della stessa, la presenza occasionale o meno dei diversi contingenti stranieri, la giurisdizione italiana sul territorio degli scontri. Anche in mancanza di contatti diretti sulla terraferma, l’affondamento di una nave o l’abbattimento di un aereo potevano essere occasioni per fare prigionieri. La campagna di Grecia, dalle alterne vicende, non ha prodotto un numero elevato di internati. Diverso il caso della sia pur breve guerra contro la Jugoslavia: con la conquista della Dalmazia, Montenegro e provincia di Lubiana, dal 1941, si ebbe un consistente afflusso di prigionieri in Italia, spesso catturati, dopo le operazioni belliche vere e proprie, in rastrellamenti successivi anti guerriglia. Indubbiamente, è in Africa Settentrionale, in conseguenza delle continue avanzate e ritirate delle nostre truppe, che furono catturati il maggior numero dei prigionieri alleati, ospitati in campi di transito in Liba e Tunisia, prima di essere trasferiti in Italia. In Tunisia, prima della disfatta del nostro esercito, furono catturati i primi Americani. La giurisdizione territoriale in Africa Settentrionale apparteneva all’Italia e per questo la gestione dei prigionieri alleati, anche catturati dai Tedeschi, fu affidata ai nostri comandi. Diversamente da quanto accadde sul fronte orientale, laddove i soldati sovietici, anche catturati dagli Italiani, ebbero quale destinazione i lager tedeschi. Infatti, non ci sono prove della presenza di prigionieri russi nei campi in Italia.
Sbarco, in un porto italiano, di prigionieri inglesi catturati in Marmarica - Originale Istituto Nazionale Luce - Collezione Nicola Oliva
Cartoline e biglietti postali in franchigia per militari e prigionieri di guerra
Il 27 luglio 1929, a Ginevra, fu firmata la “Convenzione relativa al trattamento dei prigionieri di guerra”. Questa è la versione delle Convenzioni di Ginevra che copriva il trattamento dei prigionieri di guerra durante la seconda guerra mondiale. L’articolo 36 della Convenzione disponeva che ciascuno dei paesi belligeranti fissava periodicamente il numero di lettere e cartoline che i prigionieri di guerra erano autorizzati a spedire al mese. Le lettere e le cartoline dovevano essere inviate per posta seguendo il percorso più breve. Era vietato ritardare la spedizione/consegna o trattenere la corrispondenza per motivi disciplinari. Entro una settimana dal suo arrivo nel campo, e allo stesso modo in caso di malattia, ogni prigioniero doveva essere in grado di inviare una cartolina alla sua famiglia per informarla della sua cattura e del suo stato di salute. Anche tali cartoline dovevano essere inoltrate il più rapidamente possibile e la spedizione non poteva essere ritardata per qualsiasi ragione. Di norma, la corrispondenza dei prigionieri era scritta nella loro lingua madre ma i paesi belligeranti potevano autorizzare la corrispondenza in altre lingue.
Il successivo articolo 37 disponeva che i prigionieri di guerra erano autorizzati a ricevere pacchi postali individuali contenenti prodotti alimentari e altri oggetti destinati al consumo o all'abbigliamento. Tali pacchi dovevano essere consegnati ai destinatari rilasciando anche una ricevuta.
L’articolo 38 della Convenzione del 1929, prevedeva che le lettere ed i pacchi postali indirizzati a prigionieri di guerra, o spediti da loro, direttamente o per il tramite di organismi intermediari, erano esenti da tutte le spese postali nei paesi di origine e di destinazione e nei paesi di transito (franchigia). In caso di riconosciuta urgenza, ai prigionieri doveva essere consentito di inviare telegrammi pagando le relative spese. L’articolo 40 disponeva che la censura della corrispondenza doveva essere effettuata il più rapidamente possibile e che qualsiasi divieto di corrispondenza, ordinato per motivi militari o politici, doveva essere contenuto in un periodo il più breve possibile.
Le disposizioni della Convenzione di Ginevra sulla corrispondenza ed i servizi postali consentono diverse riflessioni ed aprono le porte ad interessanti argomenti di indagine ed approfondimento.
- In primis, viene spontaneo chiedersi: perché preoccuparsi della corrispondenza dei prigionieri di guerra (POW, Prisoners Of War) e dei militari mobilitati in un contesto di morte e distruzione quale quello di un conflitto?
- Quali informazioni si possono ricavare dalla lettura e dall’analisi delle lettere e delle cartoline dei prigionieri di guerra e dei militari combattenti? Quale l’importanza dei pacchi?
- Ancora, quali le modalità organizzative e le difficoltà di un servizio postale in tempo di guerra?
Un ignoto militare italiano del 65° Reggimento di Fanteria scriveva nel 1942 “… ho già avuto occasione di provare la fame, la sete, i pidocchi, il pericolo e l’impressione dura e cruda della morte ma credimi, il più grave disagio che provo è quello di stare senza posta …”.
L’artigliere (gunner) Godfrey Percy Snow, internato presso il campo prigionieri n. 54 (Passo Corese, Fara Sabina), il 02/05/1943 così scriveva alla madre “… Life goes on just the same here from day to day and it is the arrival of letters and parcels from home which go to make landmarks in this era of monotony. …” La vita quotidiana di un prigioniero di guerra è sempre la stessa e solo l'arrivo di lettere e pacchi da casa danno sollievo alla monotonia.
Collezione Nicola Oliva
Per un soldato mobilitato al fronte o per un prigioniero in mano nemica, lontani dalle proprie case da anni, spedire e ricevere lettere e cartoline significa mantenere il legame con gli affetti familiari, avere un motivo per resistere alle atrocità della guerra, costruire un ponte tra la vita serena vissuta prima della guerra e quella futura che verrà dopo la fine del conflitto. Possiamo, quindi, formulare una prima risposta al quesito iniziale. Le nazioni hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra consapevoli dell’importanza della corrispondenza per il morale delle truppe al fronte o in prigionia.
La corrispondenza dei militari al fronte e dei prigionieri, sia pure condizionata dalla censura a cui veniva sottoposta, che imponeva di non divulgare notizie ed informazioni di rilevanza militare o semplicemente critiche nei confronti delle autorità politiche e militari (per i mobilitati al fronte) o di coloro i quali gestivano i campi di prigionia, è utile per raccogliere informazioni sulla vita quotidiana, sulle difficoltà e sulle esigenze degli autori. Il soldato semplice neozelandese Denis Caves, prigioniero presso il campo di transito 51 di Altamura (Villa Serena), scriveva a casa del piacevole clima mite autunnale e della piacevolezza del panorama italiano e delle lezioni di lingua o dei dibattiti informali sotto l’unico mandorlo presente all’interno del complesso.
Il caporale Stanley Littlestone, dal campo 65, in una lettera del 06/12/1942, scriveva dei pacchi della Croce Rossa che arrivavano al campo dall’Inghilterra, dalla Nuova Zelanda e dal Canada, descrivendone in modo dettagliato il contenuto. Confermava l’esistenza sia di uno spaccio interno - dove poter spendere la paga giornaliera di una lira per acquistare prodotti alimentari locali quali cipolle, uva, mele e arance – sia di una piccola biblioteca di circa duecento volumi, da lui curata.
Collezione Nicola Oliva
Nonostante la censura, l’enorme mole della corrispondenza da e verso i militari al fronte ed i prigionieri e le modalità di compilazione della modulistica (oggetto in Italia di copiose direttive e circolari delle autorità preposte) consentì di veicolare anche informazioni rilevanti ai fini militari. Per esempio, per buona parte del conflitto, la posta di militari italiani indirizzata a commilitoni prigionieri di guerra fu spedita senza particolari avvertenze sull’indicazione dell’indirizzo militare del mittente. Solo nel dicembre 1942, con provvedimento tardivo, fu ordinato che le lettere in esame recassero l’indirizzo civile del mittente e non quello militare. Sul punto, è interessante citare lo storico militare G.A. Shepperd che nel suo volume “La campagna d’Italia 1943-1945” Milano 1975, pag. 51, scriveva come il servizio di informazione alleato fosse stato “in grado di ricostruire un quadro notevolmente preciso dell’ordine di battaglia nemico e della dislocazione delle sue unità, grazie al semplice accorgimento di esaminare la posta che veniva avviata attraverso Il Cairo ai 700.000 prigionieri di guerra italiani che si trovavano nei campi del Medio Oriente, dell’India e dell’Africa meridionale e orientale. Le lettere di parenti che prestavano ancora servizio nelle forze armate italiane davano spesso l’indirizzo dello scrivente e in molti casi rivelavano dove era dislocata la sua unità. Anche quando la censura militare italiana cancellava queste indicazioni, si riusciva a rimuovere l’inchiostro di china, per poi rimetterlo, prima di far proseguire la lettera al destinatario. Le informazioni sulla dislocazione delle forze italiane così ottenute si dimostrarono poi molto precise.”. Non è da escludere che cartoline e lettere, apparentemente dal contenuto consueto, potessero nascondere messaggi in codice o scritti con inchiostri simpatici. La stessa spedizione in esenzione da tasse postali (franchigia), prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1929, soddisfaceva certamente le esigenze di semplificazione ed agevolazione ma anche quella di escludere che si potessero nascondere messaggi sotto i francobolli richiesti usualmente per la spedizione. Infatti, per le fattispecie escluse dalla franchigia, come per lungo tempo la posta aerea, gli organi di censura erano costretti a staccare i francobolli per le opportune verifiche, con il conseguente allungamento dei tempi di consegna. Quindi, c’è un altro tipo di approccio alla corrispondenza militare che è quello della ricerca di informazioni spendibili per le finalità belliche da parte, specialmente, degli uffici di censura e controllo dei paesi destinatari.
Timbri ed etichetta di censura italiana e inglese (da Stanley Littlestone cit. Collezione Nicola Oliva)
Le cartoline postali distribuite ai soldati mobilitati italiani durante l’ultimo conflitto hanno assolto anche al compito di essere veicoli di propaganda. Dal dicembre 1940 ebbe inizio, appunto, sul fronte interno, l’attività della propaganda. A tal fine, vennero distribuiti diversi tipi di cartoline in franchigia che, a mezzo di disegni, slogan, motti o messaggi del regime fascista, aventi come destinatari i soldati e le rispettive famiglie, irridevano il nemico, esaltavano il valore italiano ed elogiavano il risparmio dei consumi a favore dei combattenti. Talvolta la parte della cartolina postale occupata da tali messaggi era tale e tanta da ridurre in modo significativo lo spazio a disposizione del mittente. Ecco degli esempi.
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